Oggi ho il piacere di proporvi l’intervista all’amico scrittore Cristiano Guarneri che ho recentemente incontrato al Meeting di Rimini in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo. Fa sempre bene al cuore e alla mente leggere le parole di Cristiano. A voi l’intervista, buona lettura.
LQ.: Partiamo subito con una domanda sul tuo ultimo romanzo pubblicato, Marta fuori dal guscio, il terzo se non sbaglio. Letto in un fine settimana a Rimini, prima che ci vedessimo al Meeting, l’ho trovato molto coinvolgente, per la tematica trattata e per la fluidità della scrittura. Vuoi raccontare ai lettori, in due parole, a chi si rivolge il libro e soprattutto perché l’hai voluto scrivere?
CG.: È un libro per tutti. È una storia di “storie”, potremmo dire, con piani e filoni narrativi che si intrecciano con particolarità proprie, pur discendendo tutti da un unico macrocosmo, quello di una famiglia medio borghese, marito e moglie con lavoro, due figli. La vicenda è narrata dal 16enne Lorenzo, stretto tra la ricerca di una sua identità e la convivenza (mal sopportata) con una sorella che ha seri problemi comportamentali. Marta, 11 anni, è il cortocircuito della famiglia. È la persona su cui si concentrano – comprensibilmente – le attenzioni dei genitori: la vogliono “guarita” ma cadono, ogni volta, nell’evidenza che è impossibile.
LQ.: Quali sono gli ingredienti necessari perché una storia meriti di essere raccontata?
CG.: Due soli ingredienti, per me: il realismo dei fatti, l’efficacia della scrittura. Nessuna vicenda è mai completamente inventata. Le storie contengono sempre tracce d’esistenza reale, persino quelle che riguardano il fantasy. Chi legge cerca sempre qualcosa che lo riguardi: un sentimento, un dramma, una sorpresa. L’efficacia della scrittura non è un estetismo. Trovarsi davanti a un baule di bambole o a un viso che piange è diverso che leggerli e basta.
LQ.: Passiamo al tuo modo di essere scrittore, oltre che giornalista, che poi è la tua professione “ufficiale”. C’è differenza quando ti siedi alla scrivania per scrivere un articolo per il giornale o una pagina del tuo romanzo?
CG.: Per me non c’è differenza. Racconto quello che c’è, anche da scrittore. In me c’è una storia, ci sono personaggi a cui chiedo di uscire, a cui chiedo mostrare tutto di sé. Il giornalismo è la stessa cosa. Diceva Dino Buzzati, che ho riscoperto in occasione del cinquantesimo dalla morte: “Il vero mestiere dello scrittore coincide proprio con il mestiere del giornalismo, e consiste nel raccontare le cose nel modo più semplice possibile, più evidente possibile, più drammatico o addirittura poetico che sia possibile”.
LQ.: Proviamo ad addentrarci un po’ di più nel mo(n)do “creativo” di uno scrittore, senza cercare di annoiare il lettore con domande troppo specifiche per addetti ai lavori. Ti chiedo: com’è il tuo rapporto con gli “aggettivi”? Jules Renard sosteneva che “cielo” è meglio di “cielo azzurro” prediligendo una scrittura che guarda all’essenziale e che non fa uso di aggettivi convenzionali, ormai divenuti dei luoghi comuni. Tu quando scrivi che tipo di scrittura prediligi? In altre parole, cos’è per te la scrittura?
CG.: Scrivere è mettere una luce in una stanza buia. Chi legge – se lo scrittore è tale – vede uno scorcio di realtà di cui non sapeva. Non ho pregiudizi verso gli aggettivi. Metterli solo quando serve è la più grande battaglia tra chi scrive e sé stesso.
LQ.: Proseguiamo nel mondo dello scrittore: Oscar Wilde diceva che: “Il lavoro dello scrittore consiste al mattino nell’introdurre una virgola e al pomeriggio nel toglierla.” Ci puoi spiegare brevemente il tuo approccio alla stesura di un romanzo, che tecniche usi (se ne usi) e quale momento della giornata prediligi per scrivere.
CG.: Non ho un momento preciso, scrivo quando il lavoro e la famiglia me lo concedono. Non ho tecniche particolari, anzi ne ho una sola: non tradire mai la storia che mi nasce dentro. Non nasce tutta in una volta: va scoperta passo dopo passo, minuto dopo minuto. L’altra “tecnica” che mi piacerebbe usare di più si chiama: leggere. Leggere è la miglior scuola di scrittura al mondo.
LQ.: Proviamo a riassumere quanto detto a proposito della scrittura: la pagina scritta ha una dimensione che non può coincidere con la vita vissuta, l’esperienza è una cosa e la pagina un’altra. Il problema, credo, consiste nel fatto che si tende a mescolare e a confondere queste due realtà diverse. Come vedi tu la questione? In ultima analisi: che rapporto c’è tra vita e letteratura?
CG.:Per me è esattamente il contrario. Si scrive perché si vive. E si scrive – anche involontariamente – quello che si vive, o ciò che ci ha commosso di quello che si vive. L’amore di mia moglie per i nostri figli mi commuove. Posso dargli vita in un’altra città, in un’altra casa, attraverso altri personaggi, ma racconterò sempre “quel” particolare amore, perché è quello che vivo, da “quello” sono stato “ferito”. Diceva Concetto Marchesi: “L’arte ha bisogno di uomini commossi, non di uomini riverenti”. La commozione è un sentimento che smuove. E che, anche involontariamente, attendo e cerco tutti i giorni.
LQ.: Cambiamo argomento e passiamo ad una domanda al Cristiano Guarneri padre e quindi per forza di cose, educatore. Un vescovo gesuita del Cinquecento, Bartolomeo de Las Casas, diceva che il compito di ogni vera educazione è di liberarci da quella che abbiamo ricevuto da piccoli. Non diceva da quella cattiva, perché sarebbe ovvio; lui partiva dall’assioma che l’educazione ricevuta è comunque inadeguata, forse perché da piccoli non si hanno i mezzi critici per assimilarla e la si accetta acriticamente. La seconda parte dell’esistenza andrebbe dedicata a liberarci dai pregiudizi accumulati nella prima e dall’educazione fuorviante ricevuta dalla scuola e dalla società. Tu come ti poni di fronte ai tuoi figli e che tipo di padre cerchi di essere?
CG.: Leale. Racconto – a volte anche a parole – quello che mi fa vivere. O che mi addolora. Sono i gesti, gli sguardi che dicono chi è una persona. Ad esempio: ho sempre giocato molto con i miei figli quando erano piccoli e gioco moltissimo con l’ultimo che ha sei anni. La disponibilità al gioco dice di uno stato d’animo molto più che un discorso: la vita è bella! Da adulti quali adesso sono (parlo dei tre maggiori), quando è possibile faccio loro delle domande. A volte chiedo: sei felice? E se non lo sei, cosa possiamo fare?
LQ.: Stiamo arrivando alla fine delle dieci domande “concesse”… Ora ti pongo una domandona: il ruolo dello scrittore nella società contemporanea. Qual è, quale dovrebbe essere, e tu che scrittore pensi di essere?
CG.: Mi infastidisce chi associa al nostro mestiere un ruolo salvifico. Lo scrittore fa il lavoro di “delivery”. Solo che al posto di una pizza consegna – potenzialmente – un pugno allo stomaco, un abbraccio, un salto di gioia, uno scatto di corsa. Raramente, tutto insieme in una volta sola.
LQ.: Parlaci un po’ di te: oltre a scrivere (per lavoro e per diletto) cosa ti piace fare nel “tempo libero”, sempre che te ne rimanga!
CG.: Leggere. Purtroppo ho pochissimo tempo. Faccio il padre e il nonno a tempo pieno. E seguo un cammino cristiano senza il quale non sarei quello che sono, fatto di gesti, incontri, momenti di riflessione e preghiera. Nulla di quello che faccio fuori dalla lettura e dalla scrittura è perso. Ho imparato che ogni giorno è pieno di qualcosa, forse solo briciole, che si ammonticchia sul cuore e uscirà, sul foglio, al momento opportuno.
LQ.: Ultima domanda, un pensiero ai giovani aspiranti scrittori. Hai qualche suggerimento da fornire a chi magari sente dentro di sé ardere il “sacro fuoco” e vorrebbe cimentarsi a scrivere un racconto o magari un romanzo?
CG.: Non ho consigli più interessanti di quelli che gli aspiranti avranno già letto in rete o su qualche libro. Posso solo dire: scrivete quello che vivete. Anche solo per un allenamento. Se e quando pubblicherete, vi accorgerete che avrete fatto la stessa cosa.